Piero Torri a Romanews.eu: “La Roma e il Corriere dello Sport, connubio e sogno che ho realizzato”

Redazione RN
31/03/2009 - 18:45

“Anche una storia d’amore, in un certo senso, può essere un vizio: ho cinquantatre anni, ma ancora vivo di passioni”. Piero Torri da giovane aveva un sogno: “Scrivere di Roma, sul Corriere dello Sport”. Nel suo racconto si intrecciano vizi e passioni, amori e delusioni. Roma e la Roma fanno da sfondo. Il fumo delle sigarette che accende in un angolo della redazione del giornale ci accompagna. Dalle ‘maledette’ notti di Coppa, al grido liberatorio per l’ultimo scudetto vinto. Dal Barone Liedholm – “Un maestro, anche di giornalismo” – alla fuga di Capello. Passando per le Cassanate, i sorrisi di Aldair e i versi di De Gregori. Mentre parla è seduto. Ma è come se passeggiasse per i vicoli di Trastevere – “Andateci di notte: è un colpo al cuore” -. Si parte.

Nell’eliminazione con l’Arsenal c’è tutto il sapore della maledizione di Coppa.
“Con molta onestà devo ammettere che se a Londra la partita fosse finita due o tre a zero per l’Arsenal, ci sarebbe stato poco da dire. E’ pur vero che alla luce dei centoventi minuti del ritorno, Totti e compagni avrebbero meritato la qualificazione: se non altro per il cuore che hanno messo in campo. La Roma con le squadre inglesi purtroppo ha una tradizione molto negativa, che dura almeno da venticinque anni: è chiaro a cosa mi riferisco, o no? Poi, c’è da considerare l’aspetto economico: volendo ipotizzare un solo altro turno in più di Champions, questa uscita costa alla società sette o otto milioni di euro. E’ una bella batosta per un club che si autofinanzia”.

Qualcuno ha parlato di difetto nel DNA: la Roma perde questo genere di partite. E lo fa dannatamente: il destino sembra le sia avverso…
“Questo è un discorso che ci può stare: diverse volte, i giallorossi, pur mettendo l’anima in campo, poi sono usciti sconfitti. E’ rischioso, però, parlare solo di maledizione e di sfortuna. Ci sono altri fattori: la Roma, ad esempio, non essendo una società abituata a vincere, paga un po’ di inesperienza. Inoltre, soffre l’avvicinamento agli appuntamenti importanti. Ricordo la settimana che precedette la finale con il Liverpool: si stava già festeggiando la Coppa dei Campioni…”

Nel gol fallito da Baptista a dieci minuti dal termine, c’è lo spettro di un attaccante di peso che è mancato a questa squadra?
“Si è trattato di un errore talmente grossolano…Anche Loria avrebbe potuto fare quel gol. E non ho fatto un nome a caso. Tuttavia, vorrei ricordare che questa squadra annovera nel suo parco attaccanti gente come Francesco Totti, che nell’ultima stagione in cui è stato in forma ha segnato ventisei gol, vincendo la scarpa d’oro; Vucinic, venticinque anni, a Lecce ha realizzato diciannove reti da centravanti e nella stagione in corso ha già toccato quota quindici; lo stesso Julio Baptista, a Siviglia, giocando da prima punta, ha vinto il titolo di capocannoniere. Faccio fatica a dire che la Roma non abbia un grande attaccante. In sostanza, con il Totti vero il problema non esisterebbe”.

Con il Totti vero…
“Su Francesco credo siano stati fatti degli errori di valutazione: il suo recupero per la Supercoppa di agosto è stato affrettato ed ha causato un rallentamento. Però ripeto: se arrivasse un grande attaccante, con Totti in forma, sederebbe in panchina. Questo non esclude che la prossima estate la società possa andare a caccia di una punta: Podolski, Quagliarella e Floccari potrebbero essere gli obiettivi”.

Il capitano e l’allenatore: il rapporto tra Totti e Spalletti.
“Il mister ha il difficile compito di gestire la fase finale della carriera di un grande giocatore, per di più in una città così visceralmente attaccata al suo beniamino: mettere Totti in panchina non sarebbe semplice per nessun allenatore. Il giocatore, dal canto suo, credo che accusi Spalletti di dire un po’ troppo spesso che si allena poco. Io dico che se non fosse stato un professionista serio non sarebbe durato così a lungo. Senza dubbio, fra i due non c’è una simpatia straordinaria. Allo stesso tempo, Francesco riconosce il grande lavoro che ha fatto il tecnico in questi anni, mentre quest’ultimo riconosce al capitano di avere quel qualcosa in più rispetto agli altri giocatori”.

Spalletti ha il compito di gestire un altro giocatore romano, Alberto Aquilani: il rapporto con la tifoseria non decolla, gli infortuni lo tengono a terra.
“Alberto è entrato in una fase ipocondriaca: sono tre anni che ha problemi muscolari seri e infortuni minori che si trasformano poi in periodi agognati. In questo caso il rapporto con l’allenatore non c’entra: quando Spalletti dice che sarebbe importante rinnovare i contratti di quei giocatori che hanno fatto parte di questo ciclo, credo che Aquilani faccia parte del discorso. Va aggiunto pure che il ragazzo, forse, avverte la difficoltà di ottenere una maglia da titolare, sia nel 4-2-3-1 che nel modulo a rombo”.

Il contratto di Alberto: un accordo per restare o per essere ceduto?
“A me risulta che sul rinnovo siano d’accordo. Qualcuno mi dice che la firma già c’è stata. Poi sul fatto che possa finire sul mercato, è un discorso che vale un po’ per tutti, con poche eccezioni: dipenderà dal quarto posto, dalla sua voglia di rimanere a Roma e da chi si presenterà –  e con quanti soldi – per acquistarlo”.

Veniamo a lei. Come è nata la passione per il mestiere che svolge?
“Premessa: non sono un aziendalista. Detto ciò, la risposta: leggendo il Corriere dello Sport da ragazzino. E andando in Curva Sud. Il mio sogno era scrivere di Roma su questo giornale: sono felice di averlo realizzato. Ho fatto una gavetta molto lunga. In Italia, se non hai qualcuno che ti apre una porta, il percorso è complicato. Ora cerco di svolgere questo mestiere con la stessa passione dei miei venti anni. Nonostante i lati negativi di questo ambiente…”

Ad esempio?
“Quello che ti dicevo prima: le porte che si aprono per alcuni e per altri no. Senza voler fare nomi, io sono circondato da ‘figli di’ – e non intendo una parolaccia -. Frequentando Trigoria, vedo la passione con cui diversi ragazzi tentano di avvicinarsi a questo mestiere. Gente giovane, eppure in gamba. Che fa fatica…”.

Quali caratteristiche deve avere il giornalista che si occupa di calcio rispetto a quello che si occupa di altri settori?
“Per prima cosa, un archivio mentale importante: avere in testa dei pezzi che possono chiederti alle undici di sera e, pur avendo internet a disposizione, non sono semplici da scrivere in mezz’ora. La conoscenza delle regole. La capacità di scrivere un italiano non importante ma corretto: cosa che non riscontro nei giornalisti italiani. E la curiosità. In ogni caso, si può sempre migliorare. A casa ho un quadretto con il mio primo pezzo firmato: anno 1978, su un quotidiano che si chiamava ‘Olimpico’. Riguardava la moda punk, da poco scoppiata. Beh, ogni tanto lo rileggo e devo ammettere che scrivevo in maniera pessima”.

Di Piero Torri dicono che la sua più grande abilità sia trasformare due parole virgolettate in un pezzo di sessanta righe.
“Una volta un ‘Ok’ di Aldair l’ho trasformato in ottanta righe. Perchè era una persona che interpretavi dai gesti, dai sorrisi. Ci sono giocatori con i quali hai un rapporto che ti consente di scrivere un pezzo senza sentirli. Altri, con tutto il rispetto, hanno un vocabolario limitato e allora alcune virgolette possono essere trasformate in uno scritto più godibile da leggere”.

Questo esercizio le ha mai comportato dei problemi?
“Nella mia carriera ho ricevuto una sola querela, relativa ad un’intervista ad Amantino Mancini, che fece molto discutere qui a Roma – talvolta in maniera sgradevole -. Fui querelato da Alemao, l’ex giocatore del Napoli ed ex procuratore di Mancini. Il ragazzo fu molto duro nei confronti del suo manager. L’ultima giurisprudenza prevede che il virgolettato può essere imputato anche al giornalista. Una cosa da brividi. Ho il terrore che in Italia si vada verso una libertà di stampa controllata. In ogni caso credo che Alemao ne uscirà sconfitto”.

Mancini, come Chivu ed altri giocatori che sono andati via da Roma, da molti è considerato un traditore: perchè?

“Il romano, ancor di più il romanista, non concepisce l’idea di andare via da Roma. Io ricevetti un’offerta molto allettante da un giornale milanese: accettarla, però, significava lasciare questa città, dove io ci sto divinamente. Permettetemi: chi va via da Roma, della vita non ha capito niente! Contemporaneamente, riconosco che non si può pretendere lo stesso attaccamento da un ragazzo nato in Brasile o in Romania. Le loro radici sono da un’altra parte, la carriera di un calciatore è piuttosto breve: insomma non si possono mettere sul banco degli imputati se hanno preferito accettare offerte importanti. Da parte di Chivu e Mancini io non ho avvertito un tradimento. Viceversa quando andò via Emerson mi sentii ferito. Ero legato a lui da un rapporto importante: il certificato per la depressione non l’ho digerito”.

Come la fuga notturna di Capello.

“A dire il vero andò via di mattina, con la sua bella Mazda piena di bagagli. Lì ci sono le dichiarazioni che dimostrano di chi stiamo parlando: a febbraio, con i russi che gli avevano già promesso un contratto con tanti cammelli, dichiarò che la sua storia di allenatore non gli avrebbe mai consentito di andare alla Juve. Si commenta da solo. Che poi sia un allenatore vincente su questo non ci sono dubbi. Ma le parole per me sono importanti, come diceva Nanni Moretti in ‘Palombella rossa’. Il rapporto tra noi si è rotto: adesso non ci salutiamo più”.

Che rapporto aveva, invece, Piero Torri con le Cassanate?
“Per Antonio ho una simpatia epidermica: i suonati mi sono sempre piaciuti più delle persone normali. E suonato come lui – in senso buono, ben inteso – non c’è nessuno. Prima di un Sampdoria-Roma di qualche anno fa, a mezzogiorno e mezza, l’ho trovato al bar dell’albergo con un cappuccino e due cornetti! Da un punto di vista tecnico, fin qui penso che abbia sprecato il suo talento: è un giocatore fantastico, unico. A Genova ha trovato la sua dimensione: lì è il faro e il simbolo. In altre società, come Roma e Real Madrid, non è riuscito a metabolizzare il fatto di essere in uno spogliatoio con grandi campioni. Io gli auguro di avere un’altra chance in un club importante. Di talenti così ce ne sono pochi. Come tocca il pallone lui, il rumore che senti al contatto con lo scarpino, è una cosa straordinaria. Questo me lo ha insegnato il Liedholm: i campioni quando toccano il pallone fanno un rumore diverso”.

Il Barone Liedholm: le si sono illuminati gli occhi…
“Il Barone è stato un maestro. Mi ha insegnato anche a fare il giornalista. Lo chiamavi alle due di notte e con quel suo accento svedese ti diceva: ‘Si figuri, non mi disturba affatto’. Se la Roma avesse giocato la finale con il Liverpool con lo stesso stato d’animo di Liedholm, avrebbe stravinto quella partita. Non ho più incontrato una persona come lui. Ti racconto questa: ritiro della squadra negli anni ottanta, il barone concede una serata libera ed alcuni ne approfittano per fare le cinque del mattino; qualcuno va da Nils e gli riferisce l’accaduto; la risposta, ‘Sono stati bravi, avevo dato permesso fino alle sei’, ti spiega chi era il Barone. Perchè poi, quando c’era da attaccare al muro un giocatore, nel privato, non si tirava certo indietro”.

Un personaggio di un’altra epoca.
“Era tutto diverso. Noi giornalisti entravamo negli spogliatoi. C’erano Falcao, Conti, Di Bartolomei, Ancelotti: uomini straordinari. Oggi i giocatori sono segregati. Da una parte lo capisco, perchè trent’anni fa c’erano meno problematiche, la comunicazione era più ristretta. Oggi certe dichiarazioni possono generare violenza. Io ad esempio per questioni di un certo tipo, sono per la riservatezza. Diffondere nell’etere certi sfoghi, talvolta è pericoloso: ci sono orecchie di tutti i tipi. Voglio ricordare che lo scorso anno a Catania furono i giornalisti a prendere gli schiaffi…”.

(Torri accende una sigaretta). Questo è il suo più grande vizio?
“Non ti posso dire le donne, perché se legge mia moglie… Il problema è che con le sigarette non riesco a limitarmi. Se una cosa mi piace vado in fondo, anche se non sempre è un bene”.

Andare in fondo significa vivere le cose più intensamente?
“Certo. Anche una storia d’amore, in un certo senso, può essere un vizio: ho cinquantatre anni, ma ancora vivo di passioni. Forse sono ancora un po’ Peter Pan e spero di rimanerlo fino al mio ultimo giorno di vita”.

Ha un modello nel suo mestiere?
“Modelli no. Gianfranco Giubilo, però, è stato un grande maestro: magari si metterà a ridere, perchè spesso siamo in contrasto. Ma sono sempre stato affascinato dal suo modo disincantato di affrontare questo mestiere: con lui, al Tempo, ho trascorso cinque anni bellissimi. Poi ha una facilità di scrittura e di lettura del calcio che è fantastica”.

Tra i giornalisti in attività c’è qualcuno che stima in modo particolare?

“Adoro Gianni Mura. I suoi ‘Cattivi Pensieri’ su Repubblica sono una lettura imprescindibile per la mia domenica”.

Conosce Romanews.eu?
“Certamente. Apprezzo la quotidianità, la passione e la competenza con cui seguite le vicende della Roma. Per me è diventato uno strumento di lavoro: la pagina di Romanews.eu è sempre aperta sul mio desktop”.

La sua più grande delusione da tifoso.
“Roma-Liverpool, senza dubbio. Ero in Tribuna Tevere. Non ci ho più messo piede. Se mi regalassero la Tribuna intera non la accetterei”.

Quella da giornalista invece?
“E’ legata alla fuga di Capello. Quella mattina uscì solo Giorgio Tosatti con il pezzo. Le altre uscite furono solo delle ribattute. Nessuno aveva la notizia. Io venni ‘imbeccato’ la notte precedente da un collega del mio giornale. Ci lavorai molto ma non trovai conferma. E non facemmo uscire la notizia. Fu un bel buco. Anche se ancora oggi lo considero piuttosto uno scoop di Tosatti. Aveva avuto un grande vantaggio: la trattativa, da quello che mi hanno raccontato, nacque proprio da una telefonata di Giraudo al giornalista. Gli chiese se secondo lui Capello sarebbe potuto andare alla Juventus. Tosatti, che aveva un buon rapporto con l’allenatore, rispose che si sarebbe informato, in cambio dell’esclusività della notizia. A me risulta che quella sera il pezzo di Tosatti sia stato l’ultimo ad arrivare in tipografia, proprio per evitare che la cosa trapelasse. Capello ha sempre scelto giornalisti importanti con cui intrattenere rapporti: e non lo dico come un complimento…”

Lo scoop al quale è più legato.
“L’arrivo di Cassano a Roma. Diedi la notizia con due mesi di anticipo. Mi comportò anche delle discussioni all’interno del giornale. Quando uscì il comunicato della Roma fu una bella soddisfazione…”.

L’evento che le è rimasto dentro, tra quelli che ha seguito da giornalista.
“L’ultimo scudetto e la doccia che ho fatto nello spogliatoio della Roma dopo la partita con il Parma: ho buttato una camicia, un paio di pantaloni e un paio di scarpe. Puoi immaginare che non me ne sia fregato niente!”.

Il gol che l’ha fatta letteralmente sobbalzare.
“Quello del 2-2 di Vincenzo Montella, contro la Juventus, a Torino, nell’anno dello scudetto: avrei dato una settimana di vita per stare nello spicchio del Delle Alpi riservato ai tifosi romanisti. Ho strillato come un matto, perdendo la mia professionalità: ma non mi importava nulla, perchè sentivo lo scudetto cucito sul petto. E poi ero in uno Stadio dove avevo assistito a tante ingiustizie nei confronti della Roma. Una buona parte della Tribuna Stampa sabauda mi ha guardato. Ed io ho guardato loro”.

Se dovesse consegnare al cinema una storia per un grande film a tinte giallorosse, quale sceglierebbe?
“Quella di Antonio Cassano: dalla culla di Bari Vecchia al Santiago Bernabeu”.

A chi la farebbe recitare?
“Sarà perchè è romano e romanista ma io affiderei la parte a Valerio Mastrandrea: anche se non ha il fisico di Cassano. Magari nel film avrei trovato una parte anche per Alberto Sordi. La colonna sonora andrebbe a De Gregori: un poeta e un musicista straordinario. Poi la ‘Leva calcistica della classe ’68’ si sarebbe sposata a meraviglia: ‘Nino non aver paura… di tirare un calcio di rigore…”.

Un fermo immagine, una piazza di Roma, un luogo dove filmare la scena più intensa.
“A Testaccio o a Trastevere. Certi vicoli di Roma sono un viaggio nel tempo. Entrare a piazza Santa Maria in Trastevere, magari a notte fonda, quando è deserta, è più di un’emozione: un colpo al cuore che nessuna altra città ti può dare. Senza parlare di San Pietro in vincoli. Ma dico: ci siete mai stati? Un mio amico ha un attico che da’ su quella piazza. L’ultima volta che mi ha fatto affacciare dal suo terrazzo ho pensato: ‘Ve prego, fateme morì qua!’ Noi romani forse abbiamo fin troppa certezza che questa città sia unica, ma chi se ne importa. Roma è una città che si fa amare da tutti, che da millenni è ospitale con gli stranieri. In questo senso noi non ammettiamo lezioni da nessuno”.

E a chi dice che Roma è ladrona cosa risponde?
“Che dentro certi palazzi della Capitale tutti ci stanno, meno che i romani. La prima valigetta con i soldi che aprì Tangentopoli apparteneva ad un signore di Milano. Fateci la cortesia, lasciateci godere la nostra città e godetevela anche voi, se volete: perchè noi non la neghiamo a nessuno”.

Torri accende un’altra sigaretta. “A posto così? Un favore: quella parte sui vizi e sulle donne, non è che si può tagliare?”. Tre parole, poi, lo tradiscono: “Vabbè, fate voi…”. Assieme ad un sorriso, che è come un “ok” di Aldair. Su cui scrivere ottanta righe.

Simone Di Segni

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