La nostra storia – Di Bartolomei, racconto di un uomo ‘raro’
Una rubrica a cura di Paolo Marcacci

DI BARTOLOMEI ROMA – Nasce oggi, di sessantotto anni fa. Rinasce ogni volta che un tifoso giallorosso orgogliosamente lo nomina. Agostino Di Bartolomei, un nome che esce dalla galleria di calciatori e uomini rari. Anzi: di uomini che sarebbero stati rari anche se non avessero fatto i calciatori.
Figlio di una Roma autentica al punto tale da non aver nulla a che spartire né con gli stereotipi da cartolina, né con la macchietta ruvida e usurata della borgata usata e abusata dal cinema; Agostino Di Bartolomei da Tor Marancia era già giocatore, mentre ancora aspirava a diventare tale.
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È l’inconsapevolezza dei predestinati, quella che li porta a vivere ogni tappa che li avvicina al successo con la naturalezza con cui si sale un gradino.
La Roma che varca il confine tra gli anni settanta e gli ottanta, nella prima fase della presidenza Viola, è una società che comincia a percepire l’ebbrezza delle ambizioni; ha bisogno della giusta dose di personalità, affinché trovi anche la consapevolezza di poter aspirare a qualcosa che fino ad allora era stato impensabile.
Un manipolo di grandi giocatori, di uomini che si ritrovano ad essere grande squadra laddove non c’era quasi mai stata, incarna il sogno. La stella di Falcao brilla più delle altre, Pruzzo semina goal e mugugni, l’estro di Bruno Conti è poesia mancina che si scrive sulla pagina della fascia opposta; personalità diverse, fatte anche di tanti spigoli, continuamente a rischio di collisione. Diventano il gruppo di una Roma granitica proprio grazie a Di Bartolomei, al suo carisma silenzioso che olia gli ingranaggi costruiti da Nils Liedholm e fornisce l’esempio su quanto e come la Roma debba essere messa davanti a ogni altra considerazione.
Per la stampa e per gli osservatori neutrali, quella squadra che si appresta a cogliere il suo alloro è soprattutto la Roma di Falcao; per i tifosi è innanzitutto quella di Di Bartolomei, figlio prediletto e schivo della città; capitano nell’accezione più piena del termine.
Non basta un brano di De Gregori a raccontare di una passione pura, mai incline ai compromessi, arrivata tanto prima degli allori, della gloria, degli stramaledetti denari. E poi nelle canzoni di De Gregori c’è l’ombra del timore accanto al dischetto, mentre nella realtà di Ago sempre e soltanto la voglia di tirarlo, quel rigore, la responsabilità che diventa dovere.
La classe, unita alla visione di gioco, sono anche e sempre la risposta migliore a chi ne critica – soprattutto nella seconda fase della carriera, dal Milan in poi per intenderci – i ritmi compassati e la presunta mancanza di dinamismo, in un calcio come quello nostrano, che sta per essere travolto – siamo nella seconda metà degli anni ottanta – dal ciclone sacchiano e dalla sua intensità atletica. E del calciatore che è stato rifulgono più vivide che mai ancora oggi le immagini, ancora più belle se pescate a caso dal cilindro della nostra memoria tifosa, quella dove nessun giocatore muore mai, neppure se lo vuole.
Paolo Marcacci