• Di Bartolomei, “Ago” l’immortale che ha fermato il tempo

    Redazione RN
    30/05/2015 - 19:18

    CORE DE ROMA – In uno dei suoi racconti più celebri, Stephen King scrive: Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, poiché le parole le immiseriscono – le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. (…) Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto”. Ogni tifoso romanista, inconsciamente, certifica la profonda verità contenuta in questa citazione quando pensa ad Agostino Di Bartolomei. Parole, penne e tastiere di computer, infatti, non riusciranno mai a descrivere il magone e i crampi che colpiscono il cuore e la pancia nel momento in cui balena nella mente il Capitano. Articolo determinativo e maiuscola, prima di Totti, sono spettati solo a “Dibba”, ad “Ago”. Perché lui, a differenza di tanti suoi colleghi passati e presenti, con il suo sorriso bello perché raro, le frasi centellinate e mai banali (in un perfetto italiano che pure non nascondeva la romanità), è riuscito ad essere uomo, ancor prima che calciatore. Tutto, in Di Bartolomei, grondava AS Roma: l’orgoglio del portamento in campo, il modo in cui si rimboccava le maniche, l’onestà intellettuale, l’intelligenza calcistica che gli permetteva di disegnare geometrie e missili traccianti, persino l’addio doloroso alla maglia che ha sempre amato. Agostino è riuscito a farsi amare per lo spessore umano, per le sue debolezze e i suoi punti forza, piuttosto che per le sue doti tecniche, pur notevolissime. Questo è il più grande pregio e il lascito più prezioso di questo ragazzo schivo e riservato di Tor Marancia; un ragazzo che oggi avrebbe sessant’anni e che, se potesse vedere la deriva del gioco più bello del mondo, ne siamo certi, scuoterebbe il capo e si lascerebbe andare ad un sorriso carico di amarezza.

    LA STORIA – “Cos’è la Roma per me? Penso che sia il cuore di questa grande città, antica come è antico il mondo”. Inevitabilmente, era anche il suo cuore: perché l’aveva sempre amata, fin da bambino, e da ragazzo ne aveva vestito i colori, fino a diventarne il Capitano. La metamorfosi da “Rometta” a squadra blasonata coincide con l’ascesa calcistica di un centrocampista in grado di ricamare e strappare, di accarezzare la palla e all’occorrenza di colpirla con una violenza inaudita. Due Coppe Italia fanno da preludio all’apoteosi tricolore della stagione 82/83. E pensare che molti addetti ai lavori criticano la scelta di Liedholm di schierarlo davanti alla difesa: “è troppo lento”, dicono. Ma l’Ago calciatore insegna ai dotti cronisti italiani che pensare velocemente, la maggior parte delle volte, è più utile che correre sul campo. Basta scavalcare la difesa avversaria con un perfetto lancio di 50 metri e mettere in porta il compagno, o teletrasportare nella rete avversaria un pallone a 100 all’ora su calcio di punizione. Basta essere intelligenti e disposti a lottare, in questo sport. Se riesci ad abbinarci anche il coraggio, la tecnica e la leadership, allora sei un campione. Se ci metti sempre la faccia, se non ti tiri mai indietro, se spiazzi il portiere avversario dal dischetto in una finale di Champions, se sai che nella vita ci sono cose più importanti di una partita vinta o persa, se non hai bisogno di alzare la voce per esporre le tue idee, se i bambini ti prendono a modello ancora oggi dopo oltre vent’anni e se riesci, con la tua storia umana e calcistica, a far venire il nodo alla gola delle persone, allora sei immortale. Hai fermato il tempo. Di più, lo hai battuto come avresti voluto battere il Liverpool, come hai fatto con la Juventus di Platini e Rossi. Perché il calciatore passa, mentre l’ Uomo resta. A volte, come nel caso di Ago, anche dopo la morte.

    L’EPISODIO – 13 maggio 1983. La Roma è campione d’Italia per la seconda volta, 41 anni dopo. Lo scudetto è arrivato a Marassi contro il Genoa una settimana prima, perciò per l’ultima giornata di campionato all’Olimpico contro il Torino va in scena la festa giallorossa. Per la cronaca gli uomini di Liedholm vincono 3-1, ma il risultato è davvero la cosa meno importante. Al termine della gara, in uno stadio dove non si intravede un singolo seggiolino vuoto, la squadra effettua il giro di campo. Davanti a tutti, a reggere l’enorme striscione tricolore, c’è il Capitano. Indica i tifosi, come farà Totti in un pomeriggio di giugno di diciotto anni dopo, e li applaude. Sorride, Dibba, e il suo sorriso è talmente bello e sincero e carico di significato che viene da pensare che sì, è proprio vero che il riso abbonda solo sulla bocca degli stolti. Lancia un mazzo di fiori alla Sud; lo scaglia con una forza che trasuda gioia e liberazione. “L’immortalità è una meta concessa a pochi”, scriveranno i tifosi presenti a Trigoria nel giorno in cui la Roma deciderà di intitolargli uno dei campi del Bernardini. Lui l’ha ottenuta. Nessun 30 maggio potrà mai cambiare le cose. Ago è ancora lì, sotto la sua Curva: sorride, la indica e le regala un mazzo di fiori. Sempre e per sempre.

    Lorenzo Latini
    @lorenzo_lat87

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    1. Quando ero un ragazzino e giocavo con gli amici io volevo essere sempre Agostino. Per quella parte di me che è rimasta ragazzino Agostino sarà sempre il Capitano. Era più di una bandiera e più di un grande giocatore. Era l’onore di Roma in campo

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