• La nostra storia – Dino Viola, il presidente del secondo scudetto della Roma

    Redazione RN
    22/04/2023 - 12:58

    Oggi lo storico presidente giallorosso avrebbe festeggiato il compleanno: il racconto della sua storia nella rubrica a cura di Paolo Marcacci

    La nostra storia – Dino Viola, il presidente del secondo scudetto della Roma

    DINO VIOLA COMPLEANNO – Il giallo e il rosso, all’improvviso, sullo sfondo della giovinezza, a incorniciare il sorriso di Flora, solare e incantevole: il sentimento di una vita nelle due forme più romantiche del sempre, dunque. La compagna dell’esistenza e la squadra di calcio, due modi diversi per giustificare i sussulti del cuore; due versioni dell’abbraccio che Roma ha saputo sempre dispensare a tutti quelli che ha trattato da figli e che figli, in origine, non erano.

    Dino Viola, Adino per i dati anagrafici, vide la luce ad Aulla, provincia di Massa e Carrara ma quasi per sbaglio, dove non si capisce se stia per finire la Toscana o se sia già cominciata la Liguria: rilievi della Lunigiana, terra enigmatica come tutte quelli di frontiera, dove qualcos’altro è già cominciato, prima che si abbia il tempo di rendersene conto.

    Una mattina di maggio del 1979, assieme alla commozione per il congedo di Gaetano Anzalone, iniziava a scorrere il nastro di giorni destinati a rimanere incisi nel tracciato della memoria di una tifoseria e di una città intera; anche dell’Italia tutta, paese calcisticamente abituato alla subordinazione nei confronti dello strapotere industriale e finanziario del settentrione, e soprattutto ai colori, rigorosamente disposti a strisce verticali, di un potentato che tollerava la vittoria altrui soltanto in quanto innocua ed episodica, come un foruncolo da schiacciare di quando in quando. Come aveva fatto con il Cagliari e con la Lazio nella prima metà degli anni Settanta.

    La storia di Dino Viola

    “La storia siamo noi”: una canzone che i tifosi della Roma non sapevano intonare.
    Non potevano permetterselo e, per dirla tutta, non scorgevano neppure l’ombra di una tale ambizione, all’orizzonte. Perché era un cerchio che si dilatava all’infinito quando c’erano da profondere passione, attaccamento alla maglia e ai colori sociali, vicinanza fisica e ideale alla squadra; quando bisognava far ribollire lo stadio di passione ed entusiasmo, accontentandosi di quei sentimenti stessi e del piccolo “meglio” che si potesse fare e raggiungere.

    Quello stesso cerchio, però, si restringeva fino ad avere il diametro di un tappo di bottiglia, quando ci si trovava a interrogarsi sui “se” e sui “quando” sarebbe stato possibile che quella mole di passione e attaccamento, che nei momenti difficili si faceva ancora più intensa, potesse conoscere finalmente anche il coronamento della vittoria.

    Non, però, un alloro isolato che per mezzo di un’eccezione confermasse la regola di una Roma, anzi di una “Rometta” – vezzeggiativo insopportabile e per nulla consolatorio -, destinata a rientrare nei ranghi di quelli che non impensieriscono nessuno e che proprio per questo sono simpatici a tutti. No, prima di qualsiasi trionfo la Roma avrebbe dovuto conoscere una svolta, un’inversione di tendenza rispetto a quella che sembrava essere l’inerzia calcisticamente ineluttabile di un destino prestabilito.

    Perché era sempre stato come se, nella città di Dio per antonomasia, soltanto il dio del pallone non riuscisse a esercitare il suo potere di redimere una bacheca piena di spifferi, provocati dal troppo spazio a disposizione.

    Prima di poter raccontare di farne parte, quindi, la storia bisogna saperla costruire. E prima ancora di costruirla bisogna forse imparare a riconoscerne il profumo. O il colore; magari due, che vedi sventolare da un autobus non casuale, perché è un autobus che porta a Testaccio. Come salire in corsa a bordo del proprio destino, prima di conoscerlo.

    Come è accaduto alla Roma e alla sua storia quando le sorti del club giallorosso hanno intersecato quello di questo dirigente dal profilo affilato e naturalmente aristocratico, dal sorriso tagliente che sapeva anche essere sprezzante, quando c’era da utilizzare il sarcasmo indispensabile nelle dure, estenuanti battaglie politiche e dirigenziali; dagli occhi che però si facevano dolci quando lo sguardo si rivolgeva al popolo dei tifosi romanisti, alla Curva Sud figlia prediletta anche quando aspro si faceva il dissenso. Quando vide il suo nome su striscioni dal contenuto così duro che solo con occhi da padre poté perdonare.

    Anche come presidente è stato un uomo di frontiera, in ogni senso: perché tutti quelli che cambiano una storia, qualsiasi storia, lasciano l’eco di un prima e di un dopo, quando si pronuncia il loro nome.

    Paolo Marcacci

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